Di Emiliano Luchetti
Frizione, prima, un po’ di gas, lascia la frizione, troppo vel…, bum, spenta. “Non ce la farò mai” lo avrò detto così tante volte in quei due o tre giorni da non farci più caso quando lo dicevo, era diventato un mantra ipnotizzante che da un lato mi incollava alla sella della vespa, dall’altro aveva reso repellente alla mia mente ogni immagine di me mentre guidavo. Non ricordo quando e come si ruppe questo loop e forse nemmeno allora mi resi conto di come avvenne, ma ad un certo punto andava, la vespa si muoveva, urlava quando acceleravo e tardavo a cambiare, strattonava se lasciavo velocemente la frizione, grattava tra una marcia e l’altra, faceva un sacco di versi che non capivo che volessero dire e spesso stanca di me si ingolfava. In qualche maniera però stavo domando il mio primo cavallo, o meglio, un vecchio pony acciaccato, ma comunque la mia prima cavalcatura.
Passato un po’ di tempo, riuscivo mentre guidavo a pensare ad altro che non fosse concentrarsi sulla guida, potevo guardarmi intorno, far finta di essere disinvolto in sella quando passavo davanti al bar, vedere la reazione della gente quando sbagliavo marcia, insomma, come dicevano i miei amici dell’epoca, mi ero “abituato”. Avevo superato tutte le prove, potevo guidare senza pensarci. Negli anni, frequentando per lo più persone con la mia stessa esperienza motociclistica, è diventato sempre più raro osservare chi si cimentasse nel guidare e dovesse superare tutte le fatiche di Ercole per “abituarsi”. Con i compagni di sgommate quindi dimenticammo presto quel periodo, come se una volta vaccinati potessimo andare in giro per il mondo senza chiederci che fosse successo nei giorni di apprendistato.
Vorrei aprire questo argomento perché nel tempo, bazzicando comunità di motociclisti, sia per strada che sui forum, ho notato che molti di noi credono che i giorni delle bestemmie tra una partenza a singhiozzo e una grattata di marcia, siano stati il vaccino che dura tutta la vita e che “l’esperienza” quella vera si faccia nel macinare chilometri negli anni. Credo sia importante quindi provare ad illuminare quello che sta dentro la nostra black box per prendere confidenza con il funzionamento di alcuni meccanismi per poi riflettere sulle esperienze che possono fare la differenza.
Quando si apprende un comportamento complesso ripetuto, come guidare una moto o un’auto, camminare e correre, o svolgere mansioni strutturate come in alcuni lavori, inizialmente viene eseguito utilizzando una buona parte della neocorteccia nella quale sono sviluppati la maggior parte dei processi cognitivi come attenzione, linguaggio, memoria, pensiero e percezione. I processi cognitivi sono attività mentali prevalentemente consce, ovvero siamo consapevoli che sono attivi nella nostra mente e vengono utilizzati a fondo quando dobbiamo apprendere qualcosa di complesso. Quindi la nostra prima volta in sella è caratterizzata da una iper-concentrazione sul compito che non lascia spazio a nient’altro: esegui quello che ti viene detto, percepisci quello che accade, ricordi l’effetto del tuo comportamento, apprendi qual è l’effetto che devi ricercare, controlli con continui feedback ogni azione eseguita. In quel momento non sapresti ripetere il tuo numero di telefono in quanto i tuoi neuroni sono già saturi di “lavoro”. Questa è da considerare come una prima fase di un processo di apprendimento che necessariamente deve evolvere in una fase di interiorizzazione delle procedure che cerchiamo di assimilare, altrimenti avremmo bisogno di 7 cervelli, o meglio di sette neocortecce per poter gestire il nostro vivere. Infatti il nostro sistema nervoso oltre ad aver sviluppato funzioni complesse e consce come i processi cognitivi, è strutturato per gestire tutta una serie di funzioni involontarie e di comportamenti che devono o possono essere attivati volontariamente ma continuano in modo automatico.
Tutto il lavorio mentale che surriscalda il nostro cervello quando stiamo domando il nostro primo cavallo, prima o poi, perché ci consenta di guidare senza impazzire, dovrà diventare un processo automatico che attiviamo volontariamente ma necessariamente dovrà proseguire autonomamente.
Quando mi venne in mente di scrivere questo articolo e quindi pensare anche agli aspetti neurofisiologici, ripensai a quando da ragazzo facevo atletica leggera e correvo come un criceto dentro l’ovale rosso della pista sotto le urla di Silvio, l’allenatore, un tipo dal viso simpatico con la voce da orco, che nel periodo di preparazione alla stagione agonistica tentava di curare le tecniche di corsa dei sui allievi introducendo aspetti specifici: ad esempio, l’ampiezza della falcata aprendo di più l’angolo del ginocchio o l’altezza a cui deve arrivare la coscia quando corri o l’inclinazione del busto in avanti e via dicendo. Quando mi diceva di introdurre un nuovo aspetto che dovevo applicare al mio correre, in sostanza dovevo pensare di inserire ad ogni passo il nuovo movimento e ascoltare le urla di Silvio per capire se andava bene quello che stavo facendo oppure no. Se dopo qualche “va bene, vai così”, non lo sentivo più berciare e quindi era chiaro che il movimento nuovo fosse giusto, ad ogni passo ero io a controllare se quello che eseguivo fosse corretto con continui feedback che le afferenze propriocettive mi indicavano. Ricordo che in quei momenti tutta la mia mente era sul quel movimento, andando così ad inficiare la fluidità degli altri movimenti e provocando quindi una conseguente perdita di efficacia della corsa. Inizialmente sembrava di regredire e le prime volte che facevo questo tipo di lavoro di restyling della corsa mi angosciavo molto. Ma quando la morsa del mio controllo sul movimento si allentava perché percepivo che ad ogni passo andava bene, di lì a poco mi dimenticavo di pensarci. Correvo senza più pensare a quel movimento che si era integrato alla mia corsa e mi consentiva di trarne dei vantaggi.
Anni dopo ho affrontato questi argomenti nel mio corso di studi e in effetti quando i meccanismi di feedback che si attivano ad ogni nuovo movimento o alla fine di ogni procedura del nuovo comportamento non registrano qualcosa di diverso da quello che abbiamo capito essere “il comportamento giusto” , la rete neuronale che permette l’esecuzione dei movimenti inizia ad includere oltre alle strutture neocorticali anche neuroni sottocorticali i quali si occupano prevalentemente di gestire funzioni inconsce. Con il passare del tempo si crea una vera e propria rete neuronale in buona parte sottocorticale che ci permette di attivare volontariamente il comportamento complesso appreso e di continuare ad eseguirlo in modo non pensato. Questo tipo di funzione inconscia prende il nome di memoria procedurale.
Una volta lasciate alle spalle i moti rivoluzionari mentali e le imprecazioni entero-cascali, prende forma il nostro Pilota automatico tanto funzionale quanto nascosto, resistente al tempo e alla maggior parte degli eventi. Un po’ come avere Silver surfer, il supereroe d’argento all’interno della testa che ci guida quando guidiamo, ci muoviamo seguendo i suoi movimenti e rimane al suo posto con il passare degli anni e delle moto. In realtà nel percorrere migliaia di chilometri qualcosa cambia, Silver surfer diventa più agile, affina i suoi movimenti, diventa sempre più armonico, ma la maggior parte delle caratteristiche strutturali, salvo eventi particolarmente “forti” , permangono: la posizione del corpo, il modo in cui si curva, o meglio cosa muoviamo per far curvare la moto, lo schema di guida, come ad esempio le traiettorie, l’utilizzo del cambio e dei freni e così via.
Modificare Silver surfer non è semplice, come più volte mi ha spiegato un mio amico che lavora l’acciaio inox per costruire piccole parti dei motori: ogni metallo per essere cambiato nella sua forma senza spezzarlo o senza che perda le proprietà di resistenza, è importante che sia portato alla temperatura giusta e sapere che forma dargli per non correre il rischio di renderlo ancora meno utile di prima. Su questo Silvio era bravo, forse era la parte del suo lavoro in cui riusciva meglio, ma vi posso assicurare che come ex-atleta e attuale motociclista darsi la possibilità di metter mano alle proprie strutture interne per poter cambiare stile di corsa o di guida può essere faticoso e necessita di una forte motivazione. Allo stesso tempo però, anche se migliorare la propria guida può costare molte energie, se per noi andare in moto è una passione vale sicuramente la pena, sia per sentirsi più bravi nell’attività che ci piace e sia per raggiungere un grado di padronanza e quindi di sicurezza sempre maggiore.
Molti però, per diverse ragioni “si affezionano” al proprio supereroe intra-cranico e guai a chi lo tocca! Altri non sanno nemmeno di averlo e pensano che il tempo e tanta strada facciano il motociclista. Quindi a cambiare molto spesso è la moto, che al di là delle differenze tra una e l’altra, sembra che molte volte si intervenga sul mezzo per provare a migliorare qualcosa che non riguarda “lei”. Ad esempio quante volte in gruppo, soprattutto in quelli più competitivi, vediamo il nostro amico continuare a tagliare le curve a sinistra per rimanere attaccato agli altri, come faceva ai tempi del vespino o del fifty-top! Nonostante i decenni passati e le migliaia di euro in più che ha speso per avere tra il sedere e l’asfalto qualche cosa che lo faccia sentire un motociclista migliore, il suo stile non è mai cambiato.
In sostanza, per poter migliorare il nostro stile di guida è importante avventurarsi in esperienze di apprendimento che ci consenta di modificare la nostra memoria procedurale del guidare la moto. Nel prossimo articolo cercherò di proseguire questo argomento entrando nel merito al tipo di esperienze che permettono un profondo cambiamento.
Trasformarsi è l’unico modo di proseguire davvero il proprio percorso.
La ricerca della temperatura giusta è una grande metafora che (oltrepassando il senso stretto dell’articolo e affrontando una tematica imprescindibile per la crescita di ognuno di noi)apre a ciascun lettore una riflessione sul pantheon di acciaieria da rimodellare per se stesso.
Un’Emiliano ispiratissimo rimodellatore.
ancora sorrido sulle tre righe iniziali. sorrido perchè ho pensato che ancora ho bisogno di convincere me stessa che non si tratta di eventi ad esclusivo appannaggio del mio processo di apprendimento, ma che, in qualche modo, sono carattere inscindibile di ogni approccio uomo/cosa.
poi, si sa, la moto non è un semplice oggetto…
quando feci il tagliando dei 1000km e mi spostarono il tiraggio della leva della frizione, imprecai nel mio intimo per aver perso quel minimo di automatismo che mi consentisse di staccare senza grossi pensieri, lasciandomi libera di preoccuparmi per tutto il resto delle cose che non sapevo fare.
mi demoralizzai, credetti che ogni successiva, ulteriore microvariazione della mia moto mi avrebbe messo in crisi e che mi sarei continuamente sentita schiacciata da quella trerribile sensazione di estraneità nel fare.
avevo un traguardo mentale, allora:la salita di via quattro fontane. nel traffico.
poi, un giorno, mi sono trovata a dover affrontare una situazione di guida ben più complicata e ne sono uscita bene!
a quattro fontane non ci sono ancora andata. ma nemmeno ci ho più pensato, a dire il vero!
un mucchio di complimenti per la rubrica.
Bello! Non saprei cosa altro aggiungere.
Grazie
Condivido che queste letture sono davvero affascinanti e infondono inoltre un po’ di ottimismo a chi evidentemente ha reti neuronali piuttosto ottuse e riottose al cambiamento 😉 grazie
Dici che sono ottuse? Vediamo, se la teoria che “ogni porta ha la sua chiave” è vera…al prossimo articolo.
Lobo, è fantastico leggerti.
Hai una rubrica tutta particolare che spiega in modo originale e con metafore facili ma non banali che accade in moto.
Avendo spesso a che fare con i bambini\ragazzini che passano dalla moto monomarcia al cross a marce ho ben stampato in mente quei momenti difficilissimi in cui ancora non si hanno gli “automatismi”, ma il tutto richiede una grande concentrazione (e di conseguenza una grande fatica).
Questo articolo va suggerito come lettura preliminare anche a chiunque voglia fare un corso come allievo: per ricordarsi che i miracoli immediati non esistono e prima di acquisire automatismi ci vuole un po’, ma serve un “Silvio” che ti immetta nella direzione giusta per poter poi lavorare da soli e autocorreggersi fin quando non si sente che fila tutto liscio.
Grazie!
Ciao,
questa rubrica è un tentativo di rendere esplicito e quindi condiviso aspetti determinanti ma generalmente poco gestibili del guidare. Non so in futuro come evolverà e cosa ne faremo, al momento è fico immaginarla come un percorso da intraprendere con chi va di avventurarsi in scenari poco battuti.
Grazie ciao