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Consapevolezza e incoscienza

Anche noi motociclisti siamo esseri umani e, come tali, abbiamo a volte il difetto di abbandonare la razionalità a favore di pulsioni non razionali. Se questa è una cosa molto bella in tanti campi della vita – dopotutto, ci permette anche di emozionarci per le moto! – quando si guida può a volte trasformarsi in un problema.

Un noto caso di abbandono della razionalità è l'”effetto pecora“, quello che ci porta a passare col rosso o a fare un sorpasso avventato per seguire un compagno che invece era in piena sicurezza. È chiaramente un comportamento pericoloso e da non ripetere, ma siamo perfettamente consapevoli fin da subito di aver peccato e ci ripromettiamo di non rivivere mai più lo stesso spavento.

Un altro caso noto di abbandono della razionalità è la spavalderia. Finché ci si limita a fare gli sboroni al bar, niente di male, il cazzeggio è il sale delle conversazioni, ma quando si guida, può portare a realizzare manovre al di fuori delle proprie capacità, con conseguente caduta nel fosso della curva o tamponamento o rovinosa caduta durante un’impennata. Anche in questo caso la pericolosità della cosa è ovvia a tutti, incluso l’autore della bravata.

Questa roba è arcinota e non mi interessa discuterne. Ciò di cui mi preme parlare qui è un tipo diverso di comportamento irrazionale, quello dettato dall’incoscienza. Nella lingua italiana questo termine è anche associato con la spavalderia, ma qui intendo usarla nel suo significato di “mancanza di consapevolezza di sé e delle proprie azioni”. È un problema particolarmente insidioso, perché colpisce quasi tutti i motociclisti, anche quelli più tranquilli, e si manifesta sotto forma di comportamenti non percepiti come pericolosi, ma che in realtà lo sono eccome. Essi possono essere di vario tipo, ma hanno tutti un’origine comune: scaturiscono dalla presunzione che gli altri utenti della strada si comporteranno in modo perfettamente legale e perfettamente prevedibile.

Spesso si è incoscienti quando si commette un’infrazione. Esempio classico in tal senso è il sorpasso di un veicolo in corrispondenza di un incrocio. Quello non ha la freccia, quindi si dà per scontato che non svolterà; poi però lui svolta lo stesso e noi finiamo in ospedale, se va bene. Sorpassare gli incroci è vietato proprio perché è pericoloso, ma nonostante questo, quasi tutti i motociclisti lo fanno senza esitare. Ma si può essere incoscienti anche in momenti in ci si sta comportando perfettamente secondo le regole. Il caso tipico è il sorpasso di un veicolo di fronte a una stazione di servizio, che pur non vietato dalla legge, è del tutto analogo al caso precedente e altrettanto pericoloso.

Per evitare questo rischio, ogni utente della strada e specialmente il motociclista, privo di carrozzeria protettiva, dovrebbe sempre tenere presente un principio di fondo:

se un conducente può fisicamente e plausibilmente realizzare una manovra, è probabile che lo farà.

Provate a guidare tenendo presente questo principio e vi renderete conto che diverse cose che di solito fate, in realtà comportano rischi anche gravi. Oltre ai casi dei sorpassi visti sopra, vengono subito in mente i seguenti:

  • attraversare un incrocio in velocità, presumendo che chi è obbligato a darci la precedenza, lo farà – e potrebbe anche essere non solo il conducente che vogliamo sorpassare, ma anche quello che viene in senso contrario e intende svoltare alla sua sinistra
  • attraversare un incrocio a più corsie affiancati ad un altro veicolo, presumendo che il conducente non sterzerà incrociando la nostra traiettoria
  • viaggiare veloci in città (in parecchie zone anche la velocità legale di 50 km/h è eccessiva), presumendo che nessun pedone attraverserà la strada senza guardare, nessun veicolo spunterà fuori da un passo carrabile e nessun conducente aprirà lo sportello
  • non rallentare fino a passo d’uomo in presenza di un animale in strada, presumendo che quello non scarterà improvvisamente nella nostra direzione.

Tutto questo non significa che dobbiamo diventare paranoici e terrorizzati da tutto quello che potenzialmente potrebbe accadere. Non a caso ho inserito la parola plausibile. Su un rettilineo extraurbano privo di incroci e accessi, non sorpassare il veicolo che ci precede solo perché ha la possibilità fisica di spostarsi a sinistra è esagerato, perchè di solito nessun conducente fa una cosa del genere. Ma se ci accorgiamo dalle indecisioni della traiettoria che quella persona non è perfettamente lucida o sta spippolando al telefonino, ecco che lo spostamento a sinistra diventa plausibilissimo e quindi è necessario adottare le opportune contromisure: richiamare l’attenzione della persona distratta con il clacson o non sorpassare del tutto se è chiaramente ubriaca.

Lo ripeto:

se un conducente può fisicamente e plausibilmente realizzare una manovra, è probabile che lo farà.

Tenete scolpito nella mente questo principio quando siete alla guida, sempre.

Guidare la moto è come risolvere il cubo di Rubik

Molti di voi lo ricorderanno per averlo tenuto in mano e non aver saputo come maneggiarlo. Non siate maliziosi, parlo del cubo magico o cubo di Rubik. Ma anche chi non è passato attraverso l’esperienza di aver provato a risolverlo quand’era ragazzino magari l’ha conosciuto in questi giorni grazie a Google che gli ha dedicato un banner. Personalmente lo avevo rimosso dalla memoria ma nei giorni scorsi, proprio grazie a Google, ho avuto modo di approfondirne i segreti per la sua risoluzione e mi sono accorto che ha tantissime similitudini con il “guidare bene una moto”.

Lo so che sulle prime vi sembrerà un’affermazione avventata e che ai più tale similitudine non balzerà agli occhi, ma la realtà dei fatti è che guidare bene una moto è come risolvere il cubo di Rubik. Se provate a digitare su Youtube “soluzione al cubo di Rubik” troverete tantissimi video che vi spiegano come l’applicazione in sequenza di alcuni algoritmi (parecchio complessi) permetta di arrivare sempre alla soluzione benché le combinazioni possibili siano praticamente infinite (non è esatto, ma sono diversi miliardi).

Non solo, scoprirete che delle menti illuminate riescono ad applicare tutti questi algoritmi a velocità impensabili ed a risolverlo in tempi compresi tra i 5 ed i 10 secondi. Sono dei veri talenti. Il passaggio chiave però non sta nella velocità e nel talento, il passaggio chiave sta nel fatto che tali algoritmi vengono applicati in sequenza e, paradossalmente, alcuni sembrano allontanare il giocatore dalla soluzione ma, in realtà, si tratta solo di passaggi obbligati per raggiungere l’obbiettivo. Tali algoritmi vanno applicati tutti nella sequenza corretta senza essere saltati ed eseguiti senza commettere il minimo errore, o il cubo non potrà essere risolto. Sono passaggi precisi che non si posso improvvisare e che per essere eseguiti necessitano di tanto allenamento e di tanta attenzione. Cosa c’è di diverso dal guidare bene una moto? Ve lo dico io: nulla.

Guidare bene una moto presuppone che le cose vadano fatte tutte (nessuna esclusa), nella giusta sequenza ed eseguite correttamente. Per poter padroneggiare quest’arte inoltre è necessario passare attraverso diversi passaggi che non possono essere saltati. Le menti illuminate sapranno scegliere la sequenza più corretta, non sbaglieranno l’esecuzione e sapranno svolgere tale compito a velocità superiore agli altri; i piloti ne sono un esempio per quanto concerne la guida in pista. I più bravi sono tali perché fanno le cose giuste, al momento giusto e nel modo giusto. Ed hanno imparato a farlo perché hanno compiuto anche tutti i passi necessari per imparare a farlo (per imparare gli algoritmi e come e quando metterli in sequenza). Ma come per il cubo di Rubik, non è la velocità ed il talento ad essere la chiave del discorso, la chiave è che per arrivare ad un dato risultato (guidare bene la moto) bisogna giocoforza passare attraverso dei passaggi intermedi che, all’utente distratto, posso far sembrare che la direzione intrapresa sia sbagliata ma che si saltassero non porterebbero mai al risultato finale. Tali passaggi si imparano in diversi modi: attraverso l’esperienza e/o attraverso lo studio. In entrambi i casi, con umiltà, impegno ed attenzione costante. Purtroppo la moto non fa eccezione rispetto a tutte le altre cose della vita.

un cubo per ciascunoRecentemente ho vissuto un’esperienza illuminante. Le premesse a questa esperienza sono due: la prima è che io mi considero un medio-bravo motociclista, che sono consapevole dei miei limiti e sono anche consapevole che sul globo esistono molti motociclisti migliori di me. La mia vanità ogni tanto mi fa pensare però di essere un po’ più bravo di quanto non sia nella realtà delle cose. In parte mi inganna la memoria storica di quando ero effettivamente più bravo, allenato, svelto, sensibile e chi più ne ha più ne metta… in una parola, di quando ero più giovane ed in parte accade perché con il passare del tempo si consolida la convinzione di essere già riuscito a risolvere il cubo e che non sia necessario risolverlo ogni volta che si esce in moto. Due errori da non fare. Il cubo, quando si è in moto, va risolto sempre. La seconda considerazione mi serve per rimarcare semplicemente quanto abbiamo già detto: qui non si tratta di velocità di esecuzione ma semplicemente di trovare le giuste sequenze per arrivare al risultato e che per farlo magari occorre passare per una sequenza che disfa parte del cubo già fatto per ottenere alla fine un cubo ancor più completo.

Beh, l’esperienza di cui volevo parlarvi è semplice: ho guidato alle spalle di uno bravo. Per bravo intendo bravo e non spericolato. Parlo di uno che guida bene, che imposta curve rotonde, pulite, non frena mai, viaggia veloce e si vede che ha dei margini anche quando la velocità in rapporto al suo mezzo è elevata. Ma come fa? Non vi annoierò con tutte le considerazioni che mi sono passate in testa e con le prove che ho fatto da solo in quei km. Vi basti sapere che, confrontandomi con lui, mi sono reso conto che utilizza mediamente una marcia in meno di me. Semplicemente una scelta di rapporti? Si, certo, un filo in più di freno motore, un po’ di più di tiro a centro curva, ma sta tutto qui? Potrebbe anche essere, in fin dei conti il mio cubo non è la performance assoluta ma riuscire a non toccare il freno neppure quelle poche volte che l’ho dovuto fare, essere ancor più rotondo e superare la paura di quei pochi gradi in più di piega. Per scoprirlo ho provato ad imitarlo e, anche se il mio stile è leggermente diverso, mi sono accorto che la cosa funzionava abbastanza; a quel passo, su quella strada, la scelta dei rapporti era più equilibrata ma nonostante questo non riuscivo ad ottenere il medesimo risultato sentendomi sicuro al 100%. Il freno non lo toccavo più ma mi restava una certa dose di incertezza. Così mi sono osservato e mi sono studiato.

Mi sono accorto di due cose: la prima è che avendo cambiato leggermente stile mi irrigidivo nell’ingresso di curva e la seconda (strettamente correlata) è che essendo la mia mente abituata a certe sensazioni era reticente ad accettarne altre (entrare in curva un po’ più veloce e percorrere la curva leggermente più forte). In particolare la mia mente era convinta, per dirla facile, che sarei andato per terra benché i miei sensi non lo percepissero. Ho dovuto far collimare i sensi e la mente ma per poterlo fare ho dovuto eseguire dei passaggi intermedi, applicare degli algoritmi. Piano, piano. Mi sono dovuto inventare un sistema per evitare che le braccia diventassero più rigide di quanto fosse necessario. Quindi, applicato l’algoritmo delle cambiate e successivamente applicato l’algoritmo atto ad ottenere maggiore sensibilità e meno rigidità ho risolto quel pezzo di cubo. Non avrei potuto fare uno solo di questi passaggi per ottenere il risultato che mi ero prefissato. Le cose vanno insieme, fatte nella sequenza giusta e svolte nel modo giusto. In tutti gli altri casi, il cubo non si risolve.

La cosa buffa è come ho “lavorato” per ritrovare sensibilità e dolcezza e non irrigidirmi troppo in ingresso curva. Mi sono inventato un esercizio che può sembrar cretino, che può sembrare una cosa inutile o addirittura allontanare dall’obbiettivo. Io ve lo dico, senza che questo debba essere considerata una perla di saggezza, mi serve solo per far comprendere il senso di quanto sto dicendo nella sua accezione più ampia. Mentre viaggiavo in rettilineo mi sono messo ad ondeggiare i gomiti in su ed in giù. Una specie di svolazzamento. Mi sono poi imposto di fare la stessa cosa mentre percorrevo la curva. Chiaramente non ci sono entrato a cannone, ma mi sono imposto di continuare a far svolazzare le braccia e non toccare i freni. So già a cosa state pensando. Ma vi posso anche dire che fare quest’esercizio per riacquistare morbidezza l’ho trovato molto utile. Impossibile diventare rigidi, non avvicinare il busto, non spostare spalle e corpo nel modo corretto e riuscire a fare la curva, se la volete fare starnazzando come un’anatra. Fatta qualche curva così mi sono accorto che stavo più morbido e ne traevo dei benefici. Piano piano ho riacquistato sensibilità sull’anteriore. E così ho ripreso ad andare normalmente lasciando le braccia leggermente meno dure, muovendomi leggermente in avanti, insomma accompagnando meglio curva e moto. Il punto comunque è che starnazzare può sembrare un passo indietro, sulle prime mi son sentito anche piuttosto pirla, ma è stato un passaggio obbligato per sciogliere un’abitudine che si era consolidata; un passaggio obbligato per poter aggiungere un pezzo al mio algoritmo.

La scioltezza e la giusta misura tra forza ed elasticità sono alla base di una guida rotonda. Senza di quelle, le sensazioni percepite saranno sempre distorte ed il corpo non potrà muoversi come deve per accompagnare i movimenti della moto.

Per tornare al nostro cubo è stato proprio l’esercizio dello svolazzamento che mi ha fatto venire in mente il paragone tra come si risolve il cubo di Rubik ed il guidare bene una moto: disfare una cosa che sembrava fatta (erano anni che non mi potevo il problema) per ottenere alla fine un tassello in più. Lo so che la cosa non vi quaglia, che è passibile di critiche, ma il significato non sta nell’esercizio, il significato sta nel fatto che se non trovate il modo per stare meglio sulla moto, per fare un piccolo passo avanti, non potrete raggiungere un risultato leggermente migliore. Come ci arrivate è ininfluente. Utilizzate il sistema che vi piace di più (prove dirette, scuola di moto, studio personale, consigli di amici più bravi, osservazione di campioni, etc), ma cercare il miglioramento a volte passa per la demolizione e la ricostruzione di un automatismo sbagliato (o non completamente corretto). Non ci sono storie. Bisogna trovare il modo di fare la cosa giusta, l’algoritmo corretto. Perché solo le cose giuste possono portare alla soluzione del cubo.

Cosa ci insegna questa esperienza e cosa vuol dire questo lungo articolo che sono gli eroi saranno arrivati a leggere fino a questo punto: ci insegna che solo vedendo le cose fatte bene si può provare a copiarle ed a metterle in pratica. Ma ci insegna altre due cose: la prima è che una cosa apparentemente facile (guidare bene una moto), facile non è ma ci si può arrivare (come alla soluzione del cubo); la seconda è che saltare un passaggio, anche un solo passaggio, preclude la soluzione.

Mi rivolgo specialmente ai principianti, non focalizzatevi sul risultato finale (il cubo risolto) ma cercate di capire cosa fanno quelli capaci di risolverlo per arrivare alla soluzione. La chiave è solo e sempre quella: fare le cose giuste al momento giusto. Anche in termini di tempo per imparare. Non cercate di applicare tutti gli algoritmi insieme. Imparate i passaggi uno ad uno e poi allenatevi a metterli in sequenza, uno alla volta, piano piano. Create degli automatismi (sui quali restare vigili) e fin che non avrete appreso le basi non avventuratevi nella sequenza successiva. E se dovete demolire una vostra abitudine per far posto ad una migliore non abbiate paura a farlo. Solo così riuscirete ad avere tutte le facce del cubo dello stesso colore.

Mi permetto solo un’ultima considerazione che potrebbe sembrare ovvia ma che ovvia non è: ogni moto è un piccolo mondo, ogni moto necessita della propria tecnica. Ci sono molte diversità anche nel guidare due moto uguali ma di due persone diverse. Le regolazioni di gomme e ciclistica, i pesi, i giochi, le usure, etc posso rendere diverse delle moto apparentemente identiche. Cercate di cogliere nelle diversità la necessità di adattare stile e ritmo o potreste trovarvi con delle amare sorprese. Detta in altre parole, non è che se lo fa lui allora lo posso fare anch’io… lo posso fare anch’io, è vero, ma a determinate condizioni, questo non dimenticatelo nel vostro percorso di apprendimento.

Tutti possono risolvere il cubo, basta sapere come farlo. Qualcuno più talentuoso lo potrà fare più velocemente ma la sostanza non è quanto tempo ci metto per arrivare alla soluzione, la sostanza sta nel percorso che è obbligato ed univoco ed il cui apprendimento contiene la gran parte del divertimento.

Non perdetevelo.

Buona strada. T.

Ringraziamo il nostro amico Tato (Levrieronero) per averci concesso la pubblicazione del suo articolo.

Il pilota automatico

Di Emiliano Luchetti

Frizione, prima, un po’ di gas, lascia la frizione, troppo vel…, bum, spenta. “Non ce la farò mai” lo avrò detto così tante volte in quei due o tre giorni da non farci più caso quando lo dicevo, era diventato un mantra ipnotizzante che da un lato mi incollava alla sella della vespa, dall’altro aveva reso repellente alla mia mente ogni immagine di me mentre guidavo. Non ricordo quando e come si ruppe questo  loop e forse nemmeno allora mi resi conto di come avvenne, ma ad un certo punto andava, la vespa si muoveva, urlava quando acceleravo e tardavo a cambiare, strattonava se lasciavo velocemente la frizione, grattava tra una marcia e l’altra, faceva un sacco di versi che non capivo che volessero dire e spesso stanca di me si ingolfava. In qualche maniera però stavo domando il mio primo cavallo, o meglio, un vecchio pony acciaccato, ma comunque la mia prima cavalcatura.

Passato un po’ di tempo, riuscivo mentre guidavo a pensare ad altro che non fosse concentrarsi sulla guida, potevo guardarmi intorno, far finta di essere disinvolto in sella quando passavo davanti al bar, vedere la reazione della gente quando sbagliavo marcia, insomma,  come dicevano i miei amici dell’epoca, mi ero “abituato”.  Avevo superato tutte le prove, potevo guidare senza pensarci. Negli anni, frequentando per lo più persone con la mia stessa esperienza motociclistica, è diventato sempre più raro osservare chi si cimentasse nel  guidare e dovesse superare tutte le fatiche di Ercole per “abituarsi”. Con i compagni di sgommate quindi  dimenticammo presto quel periodo, come se una volta vaccinati potessimo andare in giro per il mondo senza chiederci che fosse successo nei giorni di apprendistato.

Vorrei aprire questo argomento perché  nel tempo, bazzicando comunità di motociclisti, sia per strada che sui forum, ho notato che molti di noi credono che i giorni delle bestemmie tra una partenza a singhiozzo e una grattata di marcia, siano stati il vaccino che dura tutta la vita e che “l’esperienza” quella vera si faccia nel macinare  chilometri negli anni. Credo sia importante quindi provare ad illuminare quello che sta dentro la nostra black box per prendere confidenza con il funzionamento di alcuni meccanismi per poi riflettere sulle esperienze che possono fare la differenza.

Quando si apprende un comportamento complesso ripetuto, come guidare una moto o un’auto, camminare e correre, o svolgere mansioni strutturate come in alcuni lavori, inizialmente viene eseguito utilizzando una buona parte della neocorteccia nella quale sono sviluppati la maggior parte dei processi cognitivi come attenzione, linguaggio, memoria, pensiero e  percezione. encefalo  I processi cognitivi sono attività mentali prevalentemente consce, ovvero siamo consapevoli che sono attivi nella nostra mente e vengono utilizzati a fondo quando dobbiamo apprendere qualcosa di complesso.  Quindi la nostra prima volta in sella è caratterizzata da una iper-concentrazione sul compito che non lascia spazio a nient’altro: esegui quello che ti viene detto, percepisci quello che accade, ricordi l’effetto del tuo comportamento, apprendi qual è l’effetto che devi ricercare, controlli con continui feedback ogni azione eseguita. In quel momento non sapresti ripetere il tuo numero di telefono in quanto i tuoi neuroni sono già saturi di “lavoro”. Questa è da considerare come una prima fase di un processo di apprendimento che necessariamente deve evolvere in una fase di interiorizzazione delle procedure che cerchiamo di assimilare, altrimenti avremmo bisogno di 7 cervelli, o meglio di sette neocortecce per poter gestire il nostro vivere. Infatti il nostro sistema nervoso oltre ad aver sviluppato funzioni complesse e consce come i processi cognitivi, è strutturato per gestire tutta una serie di funzioni involontarie e di comportamenti che devono o possono essere attivati volontariamente ma continuano in modo automatico.

Tutto il lavorio mentale che surriscalda il nostro cervello quando stiamo domando il nostro primo cavallo, prima o poi, perché ci consenta di guidare senza impazzire, dovrà diventare un processo automatico che attiviamo volontariamente ma necessariamente dovrà proseguire autonomamente.

Quando mi venne in mente di scrivere questo articolo e quindi pensare anche agli aspetti neurofisiologici, ripensai a quando da ragazzo facevo atletica leggera e correvo come un criceto dentro l’ovale rosso della pista sotto le urla di Silvio, l’allenatore, un tipo dal viso simpatico con la voce da orco, che nel periodo di preparazione alla stagione agonistica tentava di curare le tecniche di corsa dei sui allievi introducendo aspetti specifici: ad esempio, l’ampiezza della falcata aprendo di più l’angolo del ginocchio o l’altezza a cui deve arrivare la coscia quando corri o l’inclinazione del busto in avanti e via dicendo. Quando mi diceva di introdurre un nuovo aspetto che dovevo applicare al mio correre, in sostanza dovevo pensare di inserire ad ogni passo il nuovo movimento e ascoltare le urla di Silvio per capire se andava bene quello che stavo facendo oppure no. Se dopo qualche “va bene, vai così”, non lo sentivo più berciare e quindi era chiaro che il movimento nuovo fosse giusto, ad ogni passo ero io a controllare se quello che eseguivo fosse corretto con continui feedback che le afferenze propriocettive  mi indicavano. Ricordo che in quei momenti tutta la mia mente era sul quel movimento, andando così ad inficiare la fluidità degli altri movimenti e provocando quindi una conseguente perdita di efficacia della corsa. Inizialmente sembrava di regredire e le prime volte che facevo questo tipo di lavoro di restyling della corsa mi angosciavo molto.  Ma quando la morsa del mio controllo sul movimento si allentava perché percepivo che ad ogni passo andava bene, di lì a poco mi dimenticavo di pensarci. Correvo senza più pensare a quel movimento  che si era integrato alla mia corsa e mi consentiva di trarne dei vantaggi.

Anni dopo ho affrontato questi argomenti nel mio corso di studi e in effetti quando i meccanismi di feedback che si attivano ad ogni nuovo movimento o alla fine di ogni procedura del nuovo comportamento non registrano qualcosa di diverso da quello che abbiamo capito essere “il comportamento giusto” , © Copyright 2013 CorbisCorporationla rete neuronale che permette l’esecuzione dei movimenti inizia ad includere oltre alle strutture neocorticali anche neuroni sottocorticali i quali si occupano prevalentemente di gestire funzioni inconsce. Con il passare del tempo si crea una vera e propria rete neuronale in buona parte sottocorticale che ci permette di attivare volontariamente il comportamento complesso appreso e di continuare ad eseguirlo in modo non pensato. Questo tipo di funzione inconscia prende il nome di memoria procedurale.

Una volta lasciate alle spalle i moti rivoluzionari mentali e le imprecazioni entero-cascali, prende forma il nostro Pilota automatico tanto funzionale quanto nascosto, resistente al tempo e alla maggior parte degli eventi.  Un po’ come avere Silver surfer,silver-surfer il supereroe d’argento all’interno della testa che ci guida quando guidiamo, ci muoviamo seguendo i suoi movimenti e rimane al suo posto con il passare degli anni e delle moto. In realtà nel percorrere migliaia di chilometri  qualcosa cambia, Silver surfer diventa più agile, affina i suoi movimenti, diventa sempre più armonico, ma la maggior parte delle caratteristiche strutturali, salvo eventi particolarmente “forti” , permangono: la posizione del corpo, il modo in cui si curva, o meglio cosa muoviamo per far curvare la moto, lo schema di guida, come ad esempio le traiettorie, l’utilizzo del cambio e dei freni e così via.

Modificare Silver surfer non è semplice, come più volte mi ha spiegato un mio amico che lavora l’acciaio inox per costruire piccole parti dei motori: ogni metallo per essere cambiato nella sua forma senza spezzarlo o senza che perda le proprietà di resistenza, è importante che sia portato alla temperatura giusta e sapere che forma dargli per non correre il rischio di renderlo ancora meno utile di prima. Su questo Silvio era bravo, forse era la parte del suo lavoro in cui riusciva meglio, ma vi posso assicurare che come ex-atleta e attuale motociclista darsi la possibilità di metter mano alle proprie strutture interne per poter cambiare stile di corsa o di guida può essere faticoso e necessita di una forte motivazione. Allo stesso tempo però, anche se migliorare la propria guida può costare molte energie, se per noi andare in moto è una passione  vale sicuramente  la pena, sia per sentirsi più bravi nell’attività che ci piace e sia per raggiungere un grado di padronanza e quindi di sicurezza sempre maggiore.

Molti però, per diverse ragioni “si affezionano” al proprio supereroe intra-cranico  e guai a chi lo tocca! Altri non sanno nemmeno di averlo e pensano che il tempo e tanta strada facciano il motociclista. Quindi a cambiare molto spesso è la moto, che al di là delle differenze tra una  e l’altra, sembra che molte volte si intervenga sul mezzo per provare a migliorare qualcosa che non riguarda “lei”. Ad esempio quante volte in gruppo, soprattutto in quelli più competitivi, vediamo il nostro amico continuare a tagliare le curve a sinistra per rimanere attaccato agli altri, come faceva ai tempi del vespino o del fifty-top! Nonostante i decenni passati e le migliaia di euro in più che ha speso per avere tra il sedere e l’asfalto qualche cosa che lo faccia sentire un motociclista migliore, il suo stile non è mai cambiato.

In sostanza, per poter migliorare il nostro stile di guida è importante avventurarsi in esperienze di apprendimento che ci consenta di modificare la nostra memoria procedurale del guidare la moto. Nel prossimo articolo cercherò di proseguire questo argomento entrando nel  merito al tipo di esperienze che permettono un profondo cambiamento.

Lo specchio del motociclista

Di Emiliano Luchetti

 

Mi ricordo quando arrivai per la prima volta al bar del paese con la vespa del ’68 del mio babbo, era il mio passaporto per entrare nel mondo dei motociclanti. Avevo compiuto 14 anni da una mezza giornata e la fame di moto mi portava ad avvicinarmi a gente che sembrava vivesse solo di quello, ragazzi, uomini, vecchi lupi che non parlavano d’altro per ore: modifiche, marmitte aperte, storie incredibili e teorie sulla dinamica della moto a dir poco improponibili. Il bar diventò da quel momento la scuola delle due ruote dove potevo imparare tutto, o almeno pensavo, quello che c’era da imparare da professoroni dall’alito che sapeva di Montenegro e da giovani ricercatori che si presentavano al bar bestemmiando perché avevano perso qualche pezzo per strada che avevano aggiunto poco prima.

Altro che scuola, i primi tempi sembrava l’università, imparai a impennare, sgommare, cadere e sbucciarmi bene bene,  ma da subito notai un aspetto che ancora oggi mi intriga: nessuno in quel bar e nelle successive “scuole” che ho frequentato poneva l’attenzione sulle tecniche di guida, il focus rimaneva quasi esclusivamente sul mezzo, eccetto in quei casi in cui il pilota era evidentemente più bravo rispetto alla media della “classe” e si permetteva di sfoggiare manovre da stunt contornate da perle di saggezza su come si guida, che però risultavano criptiche a tutti. La maggior parte dei riders che ho conosciuto idolatrava, sminuiva, caratterizzava le motociclette appiccicandoci sopra adesivi, aggiungendoci o togliendoci parti convinti di modificare le qualità del mezzo.

Credo che questo argomento stia alla base dei nostri comportamenti e vorrei tentare di mettere in luce dei meccanismi ai quali facciamo poco caso.

La motocicletta  è un oggetto meraviglioso, per come è fatta e per quello che proviamo quando la usiamo, è uno strumento di piacere con il quale possiamo vivere esperienze emotive di elevata intensità. Per lei siamo disposti a spendere soldi, litigare con chi vive con noi pur di mantenerla, prendere la pioggia, ogni tanto anche qualche multa, intorno alla moto si organizzano gruppi, eventi e stili di vita. Perché? In prima analisi possiamo dire che con la motocicletta viviamo esperienze emotive, diventa per molti un simbolo di passione, questo vale anche per coloro che dichiarano di non volerci avere niente a che fare perché intimoriti, ovvero attiva anche in loro emozioni nonostante queste non vengano percepite positivamente.  Quindi in relazione alla moto ci emozioniamo e per questo motivo  si attiva un meccanismo inconscio e potentissimo sul quale si fonda la relazione con “lei”. La motocicletta diventa un oggetto proiettivo, la caratterizziamo con parti del nostro Sé, attribuiamo a lei alcune delle nostre caratteristiche, emozioni, limiti, aspetti del nostro Sé ideale e qualche volta del nostro Sé fallimentare. È per questo che la nostra moto la possiamo amare, odiare, temere, spesso quando nessuno ci sente ci parliamo, la chiamiamo e ogni tanto la offendiamo.

Tutto questo sta alla base della relazione moto-motociclista, ci permette di fonderci in un’unica entità, di arrivare a sentire la moto come un prolungamento del nostro corpo e muoversi con lei in modo armonico e naturale. Per questo ci innamoriamo, ci fondiamo in un rapporto simbiotico, vediamo in lei il meglio di noi o quello che desideriamo essere, la nutriamo di attenzioni, gadget, accessori tecnici che modificano le prestazioni, ma che spesso non vengono sfruttati fino in fondo, perché in realtà attraverso “lei” sfamiamo parti di noi.  Gli appassionati di custom ad esempio evidenziano questo aspetto più di altri,  la moto diventa un monumento a sé stessi, un’opera d’arte sulla quale specchiarsi e confrontarsi con gli altri, arrivando persino a modificare profondamente le caratteristiche tecniche della moto rendendola talvolta più difficile da guidare pur di personalizzarla.

In alcuni casi però possiamo trovarci in difficoltà: quando non ci sentiamo confidenti e non conosciamo a pieno le dinamiche della moto e le tecniche per poterla governare possiamo confonderci e non capire più  cosa abbia a che fare con noi e cosa con la moto. C’è il rischio quindi che non conoscendo bene la nostra “lei” possiamo mischiare e confondere quello che proiettiamo con le reali caratteristiche della moto. Infatti è un classico sentir dire: “con questa moto più di così non si può piegare” o “queste gomme che ho comprato non vanno bene, tendono a scivolare”. Se non riusciamo a guidare con serenità, possiamo proiettare i nostri limiti, paure, incertezze, pensando che sono aspetti della moto e corriamo il rischio di attivare il circolo vizioso del disinnamoramento: più perdiamo confidenza, più ci spaventiamo e più proiettiamo sulla  moto la nostra paura identificando in “lei” i problemi di una relazione ormai in crisi.

Molti continuano una difficile convivenza facendo finta di niente, altri massacrano il conto in banca cambiando selle, manubri, sospensioni, alla ricerca del problema, altri ancora la lasciano cercandone un’altra, andando a sbattere però nelle stesse antiche dinamiche.

Difficilmente ci pensiamo, ma la crisi può diventare l’occasione per poterci mettere in discussione e intraprendere un lavoro su di noi che ci consenta di capire i nostri limiti e saggiare le reali potenzialità del mezzo.

Per poter approfondire il rapporto con lei è fondamentale avventurarsi in un processo verso la conoscenza di noi, cercando di capire cosa “mettiamo” nella relazione con la moto, ma anche cosa può fare lei e in che modo. È un lavoro di coppia che solo noi possiamo intraprendere ma che può cambiare la relazione con il nostro amore.