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Sospensioni full floater

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Introduzione

Quando sono andato a provare la BMW S1000XR, ho notato dalla documentazione che la moto è equipaggiata con una sospensione posteriore denominata Full Floater Pro. Conoscevo già il nome Full Floater, perché è una sospensione a smorzamento progressivo largamente usata da Suzuki negli anni ’80. Ora, BMW tende a chiamare “Pro” un sacco di cose che fanno anche gli altri – per esempio, l’ABS Pro non è altro che il sistema antibloccaggio dotato di funzione cornering – perciò ho pensato distrattamente che si trattasse di qualcosa del genere e ho archiviato mentalmente il tutto nel cassetto “fuffa pubblicitaria”.

Successivamente ho provato anche la S1000R, basata sulla stessa meccanica, comune anche alla supersportiva S1000RR, ma questa volta sono stato colpito da questa frase nella cartella stampa, che prima mi era sfuggita:

il monoammortizzatore grazie al cinematismo Full Floater Pro si trova ora molto più lontano dal pivot del forcellone e dal motore. Ciò impedisce che il calore sviluppato dal motore causi il surriscaldamento del monoammortizzatore e garantisce una maggiore stabilità della temperatura di esercizio e una risposta di smorzamento ancora più costante.

In effetti, a un confronto visivo tra la vecchia e la nuova versione balza all’occhio il forte arretramento del mono, che prima era praticamente occultato dal telaio nella vista laterale, mentre adesso spicca con evidenza.

Il sistema full floater come lo conoscevo io ha parecchi pregi, ma non sposta affatto l’ammortizzatore lontano dal motore. Dovevo assolutamente capire, perciò ho gugolato a fondo, ho scoperto parecchie cosette interessanti e ho deciso di farne quest’articolo. Buon divertimento.

Un po’ di storia

A partire dagli anni ’70 i costruttori di moto da cross si trovarono ad affrontare il problema di come rendere meno drammatici gli atterraggi dopo salti che, con il crescere delle potenze, stavano diventando tanto alti da sfasciare i telai – e anche i piloti. Era indispensabile innanzitutto aumentare l’escursione della ruota. La mossa più semplice sarebbe stata quella di adottare ammortizzatori più grandi e di irrobustire il telaio, ma l’aumento di peso sarebbe stato insostenibile.

Una soluzione venne dal sistema Yamaha Monocross, introdotto nel 1973, dove il forcellone era dotato di una grossa capriata superiore, cui era fissato un mono quasi orizzontale ancorato molto in avanti al trave superiore del telaio. Questo schema consentì di aumentare di parecchio l’escursione della sospensione posteriore a parità di corsa dell’ammortizzatore e di eliminare le sollecitazioni lungo buona parte del telaio, a vantaggio della leggerezza.

Sospensione Monocross della Yamaha YZ250 1980

Con l’ulteriore progresso delle prestazioni però divenne evidente la necessità di adottare cinematismi che consentissero di accrescere progressivamente e notevolmente la rigidità della sospensione all’aumentare della compressione. In questo modo sarebbe stato possibile ottenere moto che copiavano bene le sconnessioni, ma allo stesso tempo sopportavano bene gli atterraggi, trasmettendo le relative sollecitazioni al telaio in modo progressivamente crescente e non tutte in un colpo quando il mono andava a pacco. Fu così che, a cavallo del 1980, tutte le case impegnate nel cross si dotarono di sistemi progressivi, che presto vennero adottati anche sulle moto stradali. In particolare, divennero piuttosto noti, perché utilizzati come leva commerciale, i sistemi sviluppati dalle case giapponesi: lo Honda Pro-link, il Kawasaki Uni-trak, lo Yamaha Monoshock e il Suzuki Full Floater.

Il Full Floater Richardson-Suzuki

Il Full Floater è associato a Suzuki, ma questa in realtà aveva soffiato l’idea – se qualche lettore anglofono si vuole avventurare nella lettura del caso giudiziario, ecco il link – ad un appassionato motociclista americano, Don Richardson, che lo aveva progettato, realizzato e applicato alla propria moto da cross, per poi brevettarlo nel 1974, all’età di diciannove anni.

Suzuki, che da un po’ stava tentando di realizzare una sospensione del genere, aveva firmato con Richardson nel 1978 un’esclusiva per studiare il suo sistema e applicarlo alla produzione di serie nel caso si rivelasse fattibile. Il giovane quindi condivise tutte le informazioni che aveva e fornì anche diversi prototipi. Nel dicembre 1979 Suzuki comunicò la propria rinuncia, ma in realtà i suoi tecnici e collaudatori erano entusiasti, tanto è vero che depositò nell’ottobre del 1980 in Giappone un brevetto per uno schema praticamente uguale e cominciò a vendere modelli con questa sospensione nel 1981.

Richardson fece causa alla Casa Madre e alla sua sussidiaria negli USA e nel marzo 1987 la vinse, aggiudicandosi in primo grado il pagamento dei danni e una royalty di 50 centesimi di dollaro su ogni moto venduta negli USA, per violazione del brevetto, e di ben 12 dollari su ogni moto venduta nel mondo, per il furto di alcuni segreti commerciali non brevettabili per la realizzazione pratica del sistema. Considerando che Suzuki fino alla sentenza aveva venduto circa 1,5 milioni di moto con sospensione full floater, stiamo parlando di un ordine di grandezza sui 19 milioni di dollari.

A seguito dell’inevitabile ricorso in appello, Richardson ottenne ancora di più, anche se firmò un accordo con Suzuki per non rivelare la cifra finale. Forse non è solo per questioni tecniche che i giapponesi abbandonarono questo sistema alla fine degli anni ’80.

Da quest’articolo del Los Angeles Times, pubblicato dopo la sentenza, emerge inoltre che Richardson aveva già incassato denaro con accordi privati da Kawasaki e Yamaha, che pure avevano copiato in qualche misura il suo brevetto per i propri sistemi di sospensione progressiva. Sembra quindi che una bella fetta della corsa alla sospensione più efficiente a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 sia dovuta al genio di un giovane californiano.

Lo schema Full Floater è basato su un normale forcellone bibraccio, collegato mediante due bielle alla parte posteriore di un bilanciere superiore, a sua volta infulcrato al telaio su un asse trasversale posto a metà della propria lunghezza. Il tutto quindi costituisce un quadrilatero deformabile. Il mono è ancorato al forcellone e all’estremità anteriore del bilanciere. Quando il forcellone si solleva, comprime la base del mono e solleva il bilanciere, la cui parte anteriore si abbassa, comprimendo a sua volta la testa del mono. La mancanza di qualsiasi collegamento tra il mono e il telaio rende questa sospensione completamente flottante, che appunto è il significato di “full floater”.

Sospensione Full Floater della Suzuki RM125 1981

Questo schema rende la sospensione progressiva e offre il vantaggio aggiuntivo che il telaio non è sollecitato direttamente dal mono, perché le forze gli vengono trasmesse attraverso il bilanciere, rendendo la marcia più confortevole.

Il Pro-Link Kawasaki

I vantaggi del sistema full floater erano evidenti, per cui anche altri costruttori si avventurarono in sistemi del genere. Il primo, già nel 1979, era stato Kawasaki con il sistema Uni-Trak. In realtà il nome indica una serie di sistemi full floater diversi. Il primo di essi è comunque una variazione dello schema Richardson, in quanto mantiene il bilanciere superiore, collegato al forcellone da una sola biella centrale, mentre il mono poggia non sul forcellone, bensì su un braccio inferiore parallelo ad esso e ancorato al telaio e al mozzo della ruota. Già solo a guardarlo, si capisce perché Richardson ottenne un accordo economico extragiudiziale anche con questa Casa.

Il primo sistema Kawasaki Uni-Trak

Lo Unit Pro-Link Honda

Honda aveva seguito una strada un po’ diversa dagli altri costruttori. Infatti, il suo sistema Pro-Link perseguiva sì la progressività dell’assorbimento, ma mirava anche a ridurre la lunghezza del mono, per aumentare la compattezza del sistema.

Lo schema Pro-Link originario non era un full floater, in quanto il mono era collegato superiormente al telaio. In basso invece esso era infulcrato alla parte anteriore di un elemento triangolare, a sua volta collegato posteriormente al forcellone e inferiormente, mediante una bielletta orizzontale, al telaio.

Il sistema Honda Pro-Link

Per inciso, questo sistema è usato tale e quale da diversi altri costruttori, tra cui BMW – sulla sua serie K frontemarcia – e Triumph.

Il successivo sistema Unit Pro-Link, tuttora in uso, è invece un full floater. Sviluppato sulla RC211V, questo schema fu trasferito alla produzione di serie sulla CBR600 del 2003. In pratica si tratta di un Pro-Link classico, con l’unica differenza che il mono è ancorato al forcellone e non più al telaio.

Il Full Floater Pro BMW

Come abbiano visto sopra, nella sospensione Full Floater Richardson il mono si trova nella posizione avanzata classica dei sistemi progressivi. Invece, nello schema BMW Full Floater Pro una biella laterale posta subito accanto al mono connette diagonalmente il forcellone alla parte anteriore del bilanciere, che quindi funziona al contrario ripetto allo schema tradizionale. Il mono di conseguenza è collegato alla parte posteriore del bilanciere, perciò può essere arretrato di una quota pari alla lunghezza dello stesso, ben lontano dal calore del motore.

Sospensione BMW Full Floater Pro.

L’ennesimo capolavoro della meccanica tedesca? Macchè. Gli ingegneri crucchi hanno ripreso lo schema funzionale della sospensione Ducati Soft Damp, usata negli anni ’80 e ’90 su parecchi modelli della Casa di Borgo Panigale – dalla Paso alla serie 916-996-998 – e sulle Cagiva equipaggiate con gli stessi motori. Con questa soluzione, Ducati risolse brillantemente il problema di realizzare una sospensione progressiva nel risicato spazio disponibile tra lo scarico del cilindro posteriore e la ruota.

Sospensione Soft Damp della Ducati 996

Quindi, un applauso a BMW per aver avuto la fantasia di ripescare dalla storia uno schema che ha effettivamente risolto il suo problema, ma per quanto riguarda il suffisso “Pro”, può restare tranquillamente nel cassetto della fuffa.

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